Il sacrario della Ghirlandina simbolo di libertà

Il sacrario della Ghirlandina simbolo di libertà

Ai piedi della Torre campanaria del Duomo, contiene le immagini di più di mille partigiani e la motivazione della Medaglia d’oro al Valor Militare alla città di Modena.

 

Ogni volta che, in Italia o nel mondo, vengono compiute atrocità, si calpestano diritti, accadono sciagure o si accendono conflitti i modenesi si ritrovano, qui, davanti al Sacrario della Ghirlandina, monumento alla Resistenza all’occupazione nazi-fascista, divenuto luogo simbolo della pacifica protesta democratica e del raccoglimento laico. Per chi non conosce la città, ricordiamo che il Sacrario consiste in tre grandi teche di vetro, applicate, ad altezza d’uomo, ai piedi della Torre campanaria del Duomo, contenenti oltre mille formelle in ceramica con i volti dei partigiani che persero la vita nella lotta di Liberazione. Il monumento nasce spontaneamente all’indomani della fine della seconda Guerra mondiale, attraversa diverse vicissitudini, e assume la sua forma attuale solo dopo il 1972, quando un intervento di manutenzione straordinaria fissa su ceramica le foto cartacee con i volti dei combattenti per la libertà.

L’aspetto forse più sorprendente per chi non conosce il sentire dei modenesi è il fatto che ai piedi della Ghirlandina non si siano in realtà verificati clamorosi episodi o spietati eccidi come quelli raccontati dai moltissimi cippi commemorativi che costellano l’intera provincia e costituiscono il memoriale diffuso di un’epoca violenta e autoritaria. Ma il Duomo, e soprattutto la Ghirlandina, sono da sempre il cuore, il luogo più centrale di Modena, laddove ci si ritrovava fin dal Medio Evo. Non a caso, ogni anno il Giovedì grasso, Sandrone, la maschera geminiana per eccellenza, ricorda ai modenesi che la Torre campanaria è la “pioppa” a cui aggrapparsi in ogni avversità della vita. E’ quanto era avvenuto nei secoli e così avvenne anche nei primi concitati giorni dopo la Liberazione della città. Si racconta che proprio ai piedi della Ghirlandina, all’indomani del 22 aprile – data di Modena liberata - venne rinvenuto il cadavere di uno sconosciuto, malvestito e malnutrito, che aveva addosso solo una sua fotografia. Ignoti decisero di appiccicare al lato della Torre campanaria che guarda piazzetta Tassoni l’immagine in questione nella convinzione che magari qualcuno potesse riconoscere lo sconosciuto e dargli una identità.

In realtà, si trattava di una necessità diffusa, molti modenesi, sia tra chi era sfollato sulle montagne sia tra chi era rimasto in città, avevano perso traccia di parenti e amici. Il timore era che fossero stati uccisi dai fascisti o rimasti sotto le macerie dei bombardamenti, la speranza, invece, che fossero riusciti a nascondersi e in qualche modo a scampare al conflitto. Ricordiamo, infatti, che Modena subì ben 176 incursioni aeree, di cui tre bombardamenti particolarmente distruttivi. E’ chiaro, però, che erano la violenza delle truppe di occupazione tedesca e le ritorsioni delle camice nere il grande timore di coloro che non erano riusciti a riunirsi ai loro cari. Accadde, quindi, che in tanti cominciarono a portare le foto di coloro di cui non si avevano più notizie ai piedi della Ghirlandina. Gli storici ci dicono che le immagini venivano attaccate a strisce di garza o listelli di legno fissati al muro. In breve, in quel luogo, vennero affisse decine e poi centinaia di fotografie. E la colonna del dolore ben presto si trasformò in uno spontaneo memoriale, in ricordo e omaggio a coloro che avevano scelto di lottare contro l’oppressione della dittatura nazi-fascista.

Il primo memoriale ebbe però vita breve. Già nel 1946, in occasione delle elezioni, le fotografie furono tolte per lasciare spazio ai manifesti della propaganda elettorale. E’ grazie alla neo-nata Associazione nazionale partigiani d’Italia che, dal 1949, oltre 1.300 ritratti fotografici ritornano ai piedi della Ghirlandina. Nel 1951, però, alcuni cittadini, decisamente contrari a trasformare il più simbolico monumento della città in un museo naturale della Resistenza, ricorsero alla Soprintendenza e ottennero l’ingiunzione alla rimozione delle teche. La stessa Soprintendenza sposò la tesi della incongruità del luogo scelto per il memoriale, visto che non era stato teatro di eccidi o episodi significativi. Ferma la risposta dei familiari dei caduti che rivendicarono come proprio il sacrificio dei loro cari aveva consentito al resto dei modenesi di poter continuare a godere del Duomo e della Ghirlandina come massimo monumento cittadino. La burocrazia fece il resto, tra ingiunzioni di rimozione e richieste di proroghe, la pratica finì nel dimenticatoio, mentre cresceva l’affezione dei modenesi per i volti, eternamente giovani, collocati nelle tre teche.

Nella teca centrale si riportava la motivazione del conferimento della Medaglia d’oro al Valor militare alla città di Modena (vedi box), ulteriore simbolo di un popolo che aveva saputo lottare, fino all’estremo sacrificio, per la libertà di tutti. Quest’anno, in occasione del 76esimo anniversario della Liberazione del Paese, l’Amministrazione comunale, di concerto con l’Anpi, ha disposto che proprio la bacheca centrale, infiltrata dall’umidità che aveva causato la crescita di muschi, fosse spostata in un laboratorio per essere ripulita. Già il 22 aprile, però, era stata riposizionata al centro di un Sacrario che ha assunto, negli anni, il valore di bene comune per un’intera comunità. 

 

La motivazione del conferimento della Medaglia d’oro al Valore Militare alla città di Modena

Città partigiana, cuore di provincia partigiana, al cocente dolore e all’umiliazione della tirannide reagiva prontamente rinnovando le superbe e fiere tradizioni e la fede incrollabile, ardente nei destini della patria, alle barbarie e alla ferocia nazi-fascista che tentava di conculcare l’orgoglio e domare il valore delle sue genti con vessazioni atroci, capestro e distruzioni, opponeva la tenacia invincibile dell’amore alle libere istruzioni, in 20 mesi di titanica lotta profondeva il sangue generoso dei suoi eroici partigiani e cittadini d’ogni lembo della provincia in sublime gara e si ergeva dal servaggio quale faro splendente della resistenza d’Italia infrangendo per sempre la tracotanza nemica.

Conferimento della Med. d’oro V.M. alla città di Modena 8 dicembre 1947.

 

 

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Dalla rivoluzione genomica al vaccino per il covid

Dalla rivoluzione genomica al vaccino per il covid

Comunità scientifica ed ecosistemi dell’innovazione focalizzati nelle life science protagonisti di un grande processo di evoluzione nel campo della salute

di Francesco Baruffi

 

Diamo spesso per scontata la salute, sia quando affrontiamo il tema a livello personale sia quando la salute diventa oggetto del dibattito pubblico. Lo facciamo finché qualcosa non va esattamente nel modo giusto. In quel momento il valore sociale, economico, politico e, persino, geopolitico che la salute ha emerge in modo prepotente.

 

L’evento scatenante

 

La Pandemia è stato l’evento scatenante. Oggi ci stiamo rendendo conto di quanto la salute sia davvero importante e di quanto abbia un impatto economico enorme sia in termini negativi, quando manca o quando non si riesce a mantenerla, sia in termini positivi: quanti profitti, benessere, felicità, crescita economica, fiducia nel futuro e ottimismo può fare nascere o riemergere un vaccino che migliora le condizioni di salute delle persone e, le fa tornare alla normalità, a una vita senza limitazioni, senza mascherine, senza coprifuochi.

Quanto siamo più sereni quando siamo consapevoli che il sistema sanitario può affrontare tutti i bisogni che vengono manifestati da noi cittadini e, quanta disperazione può diffondere un sistema sanitario al collasso che, invece, non è in grado di aiutarci fino in fondo e che deve scegliere chi curare e chi no generando vittime, malati di serie A e di serie B.

 

La salute come volano della crescita economia

 

Come sostengono in un recente report gli analisti di McKinsey: “Una salute migliore promuove la crescita economica espandendo la forza lavoro e aumentando la produttività, fornendo allo stesso tempo immensi benefici sociali.”

Eppure negli ultimi anni, l'attenzione dell’opinione pubblica e dei policy makers si è sempre concentrata sulla riduzione dei costi sanitari, su come sarebbe stato difficile, oneroso, e impattante in senso negativo sulla crescita economica il tema dell’invecchiamento della popolazione. Al centro del dibattito c’erano gli effetti negativi nei bilanci regionali delle richieste sempre maggiori di servizi sanitari da parte di persone e famiglie.

 

L’innovazione nella salute

 

“La pandemia è un promemoria sgradito”. Sta riportando, infatti, alla ribalta un tema rimasto a lungo sotto il tappeto: l’importanza dell’innovazione nella salute. Si pensi al solo fatto che Moderna, l’azienda americana che ha sviluppato il vaccino approdato anche in Italia, nel 2010, era una startup che iniziò a operare con un finanziamento di un fondo di VC di appena 2 milioni euro. Nel 2020, quella stessa azienda, ha ottenuto un finanziamento per lo sviluppo del vaccino di oltre 463 milioni di dollari dal Barda, Agenzia Governativa USA (soldi pubblici). Solo quest’anno quel vaccino genererà ricavi - secondo stime di Goldman Sachs - pari a 13,2 miliardi di dollari e ha fatto superare all’azienda la soglia dei 64 miliardi di dollari di capitalizzazione in borsa.

Che cosa accadrà nei prossimi anni? Quali saranno i cambiamenti significativi che interesseranno le nostre vite grazie all’effetto delle rivoluzioni accelerate dalla Pandemia?

La pandemia ha portato tanto dolore ma sta consentendo alla comunità scientifica e agli ecosistemi dell’innovazione focalizzati nelle life science di portare alla ribalta le grandi rivoluzioni in atto: da quelle che hanno consentito il più rapido sviluppo nella storia dell’umanità di un vaccino fino a quelle che genereranno un impatto dirompente nei prossimi quindici o venti anni.

Partiamo dall’innovazione più eclatante ovvero i tempi per lo sviluppo di un farmaco. Normalmente, il tempo indispensabile per sviluppare un vaccino varia dai due ai cinque anni e per arrivare al prodotto completo possono trascorrere anche dieci anni. L’emergenza mondiale causata da COVID-19 ha costretto ad accorciare sensibilmente i tempi: il vaccino è stato realizzato e si è giunti a un prodotto completo in meno di 14 mesi.

 

La rivoluzione genomica

 

Tra le innovazioni che hanno iniziato a produrre i primi importanti risultati molte si basano sulla rivoluzione genomica guidata dallo sviluppo delle tecniche di sequenziamento di seconda generazione che negli ultimi 20 anni hanno consentito di abbattere di oltre 100.000 volte i tempi e i costi delle analisi genomiche: dai mesi/anni e dai 100 milioni di dollari richiesti nel 2000, ai pochi giorni e alle poche centinaia di euro di oggi.

Lo sviluppo della medicina personalizzata ne è la conseguenza.  Oggi per “medicina personalizzata” si intende un approccio che mira a identificare le cause e i meccanismi di molte malattie che rappresentano bersagli molecolari, che possono essere bloccati con farmaci, come molecole chimiche e terapie cellulari in grado di contrastare gli effetti delle mutazioni.

In questo senso è stata trainante l’oncologia, che ha messo a punto una serie di protocolli a partire dai programmi di immunoterapia che utilizzano le cellule CAR-T, o come i linfociti T caricati in grado di agire come vere e proprie armi dirette contro le cellule tumorali.

Ad accelerare il passo della rivoluzione genomica, dopo il balzo dei primi anni 2000 realizzato con il Progetto Human Genome, sono state invenzioni come l’editing genomico “una tecnologia altamente innovativa che funziona come un “correttore di bozze” del DNA”. Molti considerano l’editing genomico come la terapia genica del futuro, visto che permetterebbe di correggere un gene difettoso direttamente là dove si trova senza doverne fornire una copia sana dall’esterno”.

Il sistema Crispr

Nel 2012 è stato scoperto il sistema Crispr-Cas9: con Crispr qualunque tipo di cellula vegetale, animale, inclusa quella umana, può essere modificata geneticamente e la correzione può avvenire per un singolo errore, ovunque nel genoma. Si tratta di una tecnica facile da utilizzare, veloce ed economica. Una rivoluzione tutta al femminile che ha consentito a due scienziate Emmanuelle Charpentier e Jennifer A. Doudna, di vincere il Premio Nobel per la Chimica nel 2020

Ad oggi la ricerca nell’ambito dell’editing genomico spazia dalle malattie genetiche ai tumori, passando per le malattie neurologiche fino alle malattie infettive (HIV).

Per Cathie Wood, CEO di ARK Fund, fondo specializzato in investimenti in aziende che sviluppano tecnologie dirompenti, "Il sequenziamento del DNA introdurrà per la prima volta la scienza nel processo decisionale sanitario. Possiamo onestamente affermare che finora più della metà di tutte le decisioni sanitarie sono state prese in parte attraverso ipotesi o esperienze. Ora avremo i dati. Inoltre, saremo in grado di curare malattie che non avremmo mai pensato di poter curare, incluso il cancro”.

Non sono le parole di un medico o di un ricercatore ma di un investitore interessato che fanno ben sperare in un futuro davvero migliore per tutti.

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Dante Alighieri e il libro perduto

 

Dove si racconta della presenza e dell’uso del volgare modenese nella Divina Commedia: faticoso esercizio di stile e grande atto d’amore verso la nostra città.

 Nell’anno dell’Alighieri e nel periodo che anche Modena riserva incontri e iniziative a Dante e alla sua Commedia, noi vi raccontiamo del libro perduto (quasi) dove l’erudito Emiliano Ravazzini ragiona della presenza e del ruolo del Volgare modenese (inteso come lingua scritta e parlata) nel testo che ha reso il grande Toscano “sommo poeta” ed eterno padre della lingua italiana.

Stiamo parlando di un libretto di 35 pagine, pubblicato a Modena nel 1910 dalla Società Tipografica Modenese Antica -Tipografia Soliani che all’epoca doveva aver sede in via Emilia Centro, sotto il Portico del Collegio. Una tipografia che sola merita l’attenzione di una storia tutta sua che trovate a parte.

Tornando, invece, al nostro libro perduto, probabilmente una sola copia in nostro possesso, ha tutta l’aria di essere un esercizio di stile, di dubbia modestia e di sconfinato amore per Modena e la nostra lingua: il dialetto traslato all’italiano volgare alla base della lingua di oggi, a sua volta sviluppata per la prima volta in modo compiuto proprio da Dante nella Divina Commedia.

Ne “Il Volgare Modenese nella Divina Commedia”, Ravazzini non indugia tanto sui contenuti dell’opera del Poeta: agli inizi del secolo scorso Dante era più che riconosciuto come l’artefice della lingua italiana e autore dell’opera in assoluto di maggior rilevanza del suo millennio. Quindi il nostro concittadino, dopo alcune pagine di ammirazione assoluta, si sofferma soltanto sulle similitudini tra diversi vocaboli della Commedia e la corrispondenza con le parole in volgare modenese.

Anzi, prima delle parole esamina il contesto: Dante esule nei territori oggi compresi in Emilia-Romagna; le lodi alla lingua volgare bolognese e il riconoscimento della presenza di parole ed espressioni derivanti dagli idiomi in uso nel modenese, nel ferrarese e nell’Imolese; da qui la convinzione che anche il Volgare Modenese abbia trovato “degno posto nel Sacrato Poema”.

Ravazzini dubbi non ne ha al riguardo e infatti afferma che “Una rapida scorsa ai vocaboli ed alle locuzioni di cui n’è ingemmato (il Poema), ce ne porgerà certezza”. E prosegue, però, mettendo le mani avanti. “Ometterò per brevità d’indagarne la provenienza od etimologia: perocché fermati gli uni e le altre in rima e non, possono essere ad occhi chiusi accettate anche dai più schifiltosi. Non pretendo di averli tutti spigolati: e se per avventura fossero in uso pure in altre provincie, che io non so per essere ignaro de’ loro dialetti, tanto meglio perché così avranno una doppia legittimità. Siatemi cortesi di attenzione per giudicare rettamente se sia o non vero quello che mi sono posto di dimostrarvi.”

E qui comincia l’avventura vera di Emiliano Ravazzini e la mia, che ne sto scrivendo, e la vostra, se avrete la cortesia e l’attenzione richiesta dal nostro antico studioso di fatti modenesi: egli, infatti, riporta ed esamina sessantacinque tra parole e frasi fatte, tutte tratte dalla Divina Commedia, che dimostrerebbero come il volgare modenese sia in effetti presente nel testo massimo della nostra letteratura. A dire il vero si tratta spesso di vocaboli di uso comune, nel nostro volgare, in quello bolognese, in gran parte degli idiomi dell’Italia del nord e finanche (scriverebbe Ravazzini) nell’italiano corrente. Ad esempio: Ca’, nel senso di casa; Coppo, inteso come tegola; Doga, quella delle botti; Fresca, in quanto recente; Landa, luogo inospitale, Piluccare, togliere delle piccole parti; e altro ancora. Insomma, fino a questo punto al Nostro piace vincere facile: nessuna necessità di conferma e nessun rischio di contestazione.

Eppure, bisogna riconoscerlo, qualche parola sghemba è riuscito a trovarla e ad avvicinarla con buona approssimazione al nostro volgare e al nostro dialetto. Proviamo a vedere i dettagli, anche se forse Ravazzini, oltre a cortese attenzione avrebbe dovuto evocare anche una certa indulgenza, viste le ardite sue riflessioni. E se le riflessioni furono ardite, immaginate come potranno essere le conclusioni. Anzi, risparmiate tempo e fatica, seguitemi ancora per qualche riga e a quelle conclusioni arriveremo insieme.

Ecco alcune delle parole del nostro dialetto riportate “in lingua finita” e cioè in italiano, che Ravazzini avrebbe individuato nella Divina Commedia, riportiamo i vocaboli e le relative collocazioni nel testo:

  • Addarsi, nel senso di accorgersi, addae’, in dialetto modenese.

 

“Né ci addemmo di lei se’n parlò pria,

dicendo: Frati miei, Dio vi dea Pace”

 

  • Co’, nel senso di capo di qualcosa, tale e quale in dialetto modenese

 

“Poscia passò di là dal co’ del ponte”

 

  • Fenno, fecero, fenn’ in dialetto modenese.

 

“Atene e Lacedemona, che fenno

l’antiche leggi, e furon sì civili…”

 

  • Latino (ladino), in modenese ladein, inteso come facile, agevole.

 

“Ma ora mi aiuta ciò che tu mi dici

Sì che raffigurar m’è più latino.”

 

  • Scurriada, frustata, Scuriaeda nel nostro dialetto

 

“Così parlando il percosse un demonio

della sua scuriada, e disse, via…”

 

  • Statera, bilancia, stadera in dialetto modenese

 

“Ch’alla vostra statera non sian parvi”

 

Seguono altri vocaboli e qualche frase, ma che poco aggiungono alla teoria del nostro Emiliano Ravazzini sulla presenza e sul ruolo del dialetto e del volgare modenese nella Divina Commedia. Quindi ci affidiamo alle parole finali del suo libretto per concludere anche questo omaggio a Dante e alla sua grandezza:

“Tu, Modena intanto, graziosa città che ne sei l’organo precipuo ed il centro irradiatore; puoi ben andare orgogliosa che il tuo Volgare sia magnificato nell’Opera poetica più diffusa del mondo: più sublime che sia mai stata pensata da uomo o più sapiente dopo la Bibbia che mano terrena abbia vergata; scritta nella lingua parlata del popolo, fluente e pura come l’acqua di alpestre fonte, melodiosa con il gorgheggio dei rosignuoli, condita di uno stile leggiadro insieme e robusto, che gli stranieri all’Italia invidiano, precorritrice un tempo come ora s’affatica d’essere antesignana d’ogni sapere e virtù. Emiliano Ravazzini”

 

Sono sempre le parole che spiegano i fatti

Scusate se abbiamo un po’ giocato sulla storia del “libro perduto”, anche se invero, scusate ancora, davvero sembra ne esista una sola copia, quella in nostro possesso e acquistata di recente presso la libreria antiquaria Govi di Modena che, ovviamente, custodisce e propone ben altri tesori.

Non siamo riusciti a sapere molto su Emiliano Ravazzini. A parte la copertina del libro, il suo nome compare soltanto in un elenco di autori locali, ovviamente sempre in relazione a “Il Volgare Modenese nella Divina Commedia”. Anche questa vicenda del libretto che attraversa oltre 100 anni e arriva fino a noi, però, dimostra che a scrivere qualcosa si guadagna sempre un pizzico di eternità.

 

 Una grande storia modenese

Un approfondimento specifico merita sicuramente la casa editrice che nel 1910 pubblicò il nostro libro, ovvero la Società Tipografica Modenese – Antica Tipografia Soliani, un nome che rappresenta la storia della stampa a Modena e in Italia, e che attraverso quattro secoli è giunta a sfiorare anche l’epoca che stiamo vivendo.

Si tratta di una vicenda umana, professionale e culturale così importante che certamente sarà nostro obbligo dedicarle ampio spazio in uno dei prossimi numeri della rivista, se non altro, anche per dare un senso alla nostra scelta di raccontare “storie di carta” che rimangono nel tempo, in un mondo che invece brucia “storie digitali” in una frazione di secondo.

La storia, questa storia, inizia con Bartolomeo Soliani, che già nel 1623 esercitava l'attività di libraio a Modena e che nel 1646 iniziò a stampare libri nella sua bottega di Piazza Grande. In una realtà dove l’analfabetismo toccava l’80 per cento della popolazione, Soliani pubblicò soprattutto libri popolari, affiancati da una produzione storica e scientifica di un certo interesse.

Importante la raccolta di matrici di legno per 12 tipologie di carattere di stampa. La raccolta dei "legni" forma una collezione di migliaia di pezzi, accuratamente conservati, e ora collocati nella Galleria Estense di Modena.

Gli Eredi Soliani continuarono l'arte della stampa in Modena dal 1752 al 1863, con alterna fortuna. Essi poterono comunque fregiarsi dei titoli di Stampatori Ducali e infine Reali. Dalla tipografia Soliani uscì il giornale IL MESSAGGERE pubblicato dal 1756 al 1796, risorto dopo il 1815 e portato avanti sino al 1848.

 

Venne quindi il periodo di Luigi Gaddi e poi di Adeodato Mucchi che intorno al 1860

acquisì l'attività della Soliani, di altre tipografie e della Libreria Editrice Vincenzi e Nipoti, venendo così a formare una solida azienda per la produzione e diffusione di libri e stampati.

 

La dinastia dei Mucchi arriva fino ad oggi e, come detto, certamente racconteremo meglio e più diffusamente gli avvenimenti che portarono l’azienda ad attraversare rivoluzioni, due guerre mondiali, epoche, stili e diverse scuole di pensiero. Cambiamenti radicali delle tecniche e dei contenuti, sempre comunque nel segno del bello da stampare.

 

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23 - Le donne del Comunale

LE DONNE DEL COMUNALE

Di Laura Corallo

“Il teatro non è cosa per donne” è una frase celebre dell’attore e regista Carmelo Bene. Forse si riferiva alla fatica, alla durezza, del lavoro teatrale e dunque alludeva al pregiudizio che le donne fossero troppo deboli per affrontarlo. Eppure le professioniste che lavorano in palcoscenico, in particolare dietro le quinte, sono tante. Fanno parte di un mondo nascosto al pubblico eppure pulsante di abilità, esperienza e capacità: un mondo nel quale la tecnica si unisce a gesti che affondano la loro origine in tempi lontani. È il mondo dei macchinisti, degli attrezzisti, degli scenografi, dei sarti. Nulla senza di loro potrebbe esistere di quella “materia dei sogni” di cui il teatro è fatto.

È artigianato in senso stretto, un’attività nella quale ogni prodotto è diverso dall’altro, e in ognuno c’è l’impronta della mano di chi lo ha fabbricato così come i pochi strumenti, spesso realizzati in proprio. Al Teatro Comunale Pavarotti, principale teatro lirico di Modena, due figure chiave nella messa in scena degli spettacoli sono donne: Keiko Shiraishi, una delle poche scenografe sulla scena teatrale nazionale odierna e Catia Barbaresi capo macchinista teatrale, unica donna in Italia a ricoprire questo ruolo in un ente teatrale stabile e una delle pochissime macchiniste in Italia.
Dalle loro interviste, insieme all’amore sconfinato per l’arte e il teatro, traspare anche la volontà, l’urgenza quasi, di trasmettere “il mestiere” alle nuove generazioni.


KEIKO SHIRAISHI

È giapponese l’erede di cinque secoli di tradizione pittorica teatrale emiliana che arriva ai nostri giorni attraverso i pittori modenesi Koki Fregni, Maria Grazia Cervetti e Rinaldo Rinaldi. Keiko Shiraishi è scenografa del Teatro Comunale, uno dei pochi teatri rimasti in Italia attivi nella costruzione di allestimenti scenici. Significa che la maggior parte delle opere sono affidate ad artigiani con l’allestimento all’italiana di fondali e quinte dipinte a mano. Una tradizione che viene esportata in tutto il mondo, soprattutto nel caso degli scenografi esecutori. Gli italiani sono gli unici che ancora dipingono a mano, e a livello di eccellenza.


Keiko, ci parli dei suoi inizi.
Sono nata nel 1970 a Shizuoka, in Giappone. Risale agli anni ’80 la mia prima esperienza come illuminotecnico e scenografa per la compagnia teatrale del Liceo regionale Kariyakita. All’età di 18 anni ho lasciato gli studi superiori per seguire mio padre in India, ingegnere della Toyota e responsabile dello stabilimento di Nuova Delhi. Lì mi sono dedicata agli studi universitari, ho studiato Musica Classica Indiana al Conservatorio e lingua italiana presso l’Ambasciata Italiana di Nuova Dehli. Nel 1993 sono arrivata a Roma per studiare all’Accademia di Belle Arti. Ho collaborato come apprendista al Teatro dell’Opera di Roma e come scenografa realizzatrice al Teatro di Roma. Ricordo di essermi presentata tutti i giorni per sei mesi per convincere il direttore del Teatro dell’Opera a farmi fare lo stage. Grazie a Edoardo Sanchi sono diventata assistente di Rinaldo Rinaldi, tra i più importanti scenografi al mondo.

E come è arrivata a Teatro Comunale Luciano Pavarotti?   
Nel 1997 ho seguito Rinaldi a Modena e insieme abbiamo collaborato alla realizzazione pittorica di importanti opere commissionate dai più prestigiosi teatri lirici nel mondo. L’anno dopo sono entrata al Comunale, prima come stagista e poi da scenografa, in modo continuativo dal 2017. Ho lavorato come scenografa libero professionista per diversi teatri, ho firmato e realizzato scene di spettacoli teatrali per la Compagnia del Serraglio, Giardini Pensili, Teatro dei Cinquequattrini.

Come si costruisce una scenografia e quante ne hai realizzate?
Sono scenografa specializzata nella costruzione di fondali dipinti a mano. È un mestiere puramente artigianale che sta ormai scomparendo. Il fondale è l’elemento scenografico più importante e si trova nello sfondo del palcoscenico. Nella mia carriera ho realizzato quaranta, tra scenografie e fondali dipinti a mano. Usiamo pennelli, tavolozze e colori, si lavora in piedi con le tele a terra. Occorrono tre mesi per realizzare una scenografia di ampie dimensioni mentre se la scena è piccola lo realizzo da sola e in un mese. È un’arte antica e difficile perché come realizzatore devo interpretare le intenzioni del bozzettista e prevedere l’effetto finale. Il lavoro finito è tutto finto, una illusione per il pubblico ma la tecnica per realizzare questi scenari è in realtà un'arte meravigliosa, quella praticata dai pittori di fondali che, appunto, dipingevano le ambientazioni che avrebbero fatto da sfondo alle storie.

Progetti per il futuro?
Mi piacerebbe portare avanti la tradizione di questo antico mestiere, ormai in estinzione, proprio qui a Modena. Oggi solo quattro pittori, in tutta Italia, dipingono i fondali, due lavorano sotto la Ghirlandina. Pochi sono i laboratori di scenografia mentre i fornitori sono quasi scomparsi. Gran parte del materiale viene autoprodotto: dai carboncini ai pennelli fino ai colori di scenografia. La città di Modena, essendo patria di artigiani importanti nel mondo del teatro, come Rinaldo Rinaldi, uno degli ultimi pittori rimasti a dipingere fondali nella sala di scenografia di un teatro d’opera italiano, potrebbe pensare di investire in una scuola di scenografia rivolta alle nuove generazioni perché questo lavoro si impara solo facendolo.


CATIA BARBARESI

È diplomata all’istituto d’Arte e specializzata in Architettura e Arredamento. Ma quando, nel 1997, Catia Barbaresi, originaria di Fano, ha messo piede per la prima volta nel Teatro della sua città, ha capito che il palcoscenico sarebbe stato il suo “luogo di lavoro”. Da più di vent’anni lavora come capo macchinista per il Teatro Comunale di Modena. Il suo compito è quello di montare le scenografie e farle muovere sulla scena durante lo spettacolo. Una magia, appunto, che si nutre di tecnica e sapienza del mestiere.


Qual è stato il tuo approccio al teatro?
Nel 1997, all’età di 20 anni, ho vinto un concorso al Teatro di Fano, la mia città di origine, e ho iniziato subito a lavorare come macchinista. Sono entrata in questo mondo fantastico e per me è stato amore profondo grazie anche ad una sensibilità musicale trasmessa da mia nonna. Quello del macchinista è un lavoro complesso: bisogna mostrarsi determinati, soprattutto in un contesto lavorativo prevalentemente maschile. Io stessa sono stata formata da un uomo, il grande Maestro Angelo Lontani di Piacenza che ha contribuito a farmi amare questo mestiere. Probabilmente, poi, c’è una predisposizione familiare a fare lavori maschili. Mia mamma aveva un lavaggio d’auto e mia zia era un capo operaio in un cantiere navale. Lavoro stabilmente, dal 1998, al Teatro Comunale di Modena ma mantengo ancora collaborazioni esterne, tra queste quella importante con il Festival dei Due Mondi a Spoleto.

Cosa ti appassiona del teatro?
Il mondo del teatro è molto bello perché solo quando sei dentro capisci cos’è: è come aprire una porta spazio-tempo dove le opere teatrali hanno il dono dell’immortalità. E poi, il lavoro dei tecnici dietro le quinte: abili artigiani, pronti a trasformare in realtà le fantasie geniali dei registi. Vedere la mano che realizza è il momento più affascinante. Mi muovo nel ventre del teatro, in un mondo che gli spettatori non vedono. Ma grazie al lavoro dei tecnici, di chi sta dietro le quinte, lo spettacolo esiste.

In cosa consiste il lavoro del macchinista?
I macchinisti si occupano della costruzione, montaggio e movimentazione delle scene, prima e dopo lo spettacolo e del loro funzionamento durante la rappresentazione. Quella del macchinista è un’arte molto antica e non è cambiata nel tempo: il mio lavoro consiste nella gestione della parte tecnica: legare corde, realizzare contrappesi per sollevare oggetti pesanti, costruire e manovrare i marchingegni del palcoscenico. A Modena lavoriamo in un team affiatato dove è importante trovare una sintesi tra le diverse esigenze, dal regista, allo scenografo al tecnico della luce. La mia figura fa da raccordo tra il lavoro tecnico e quello artistico. Come capo macchinista ho l’ultima parola sulle decisioni da prendere nella preparazione delle strutture portanti alle quali sono in seguito appese le luci e le scene, preparando e movimentando i tiri. È un lavoro molto affascinante ma di grandi responsabilità dove il lavoro di uno dipende il lavoro degli altri e, dunque, ogni ingranaggio è ugualmente importante e deve funzionare con precisione, affinché il risultato finale sia un successo.

Cosa consigli ad un giovane che vuole seguire le tue orme?
Avvicinarsi ai teatri non è difficile ma non è neanche così immediato. Il lavoro del teatro è molto duro, e la memoria dell’esperienza difficile da trasmettere. Per questo occorre salvaguardare il lavoro del teatro come mestiere d’arte, perché altri possano apprendere e tramandare alle generazioni successive. Il percorso che avvicina di più al mestiere è l’Accademia di Belle Arti cui deve seguire la crescita professionale mediante l’esperienza sul campo affiancando i maestri nell’apprendimento dei segreti e trucchi del mestiere.

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23 - Forum Monzani, dieci anni di passioni

FORUM MONZANI, DIECI ANNI DI PASSIONI

Un libro fotografico di BPER Banca illustra tutti i protagonisti di questa iniziativa culturale unica nel suo genere

Dalla A di Simonetta Agnello Hornby alla Z di Vittorio Zucconi, passando per circa 160 nomi e 206 titoli. È un alfabeto di protagonisti della letteratura, del giornalismo, della filosofia, del cinema, ma anche della musica, dello sport e della politica, quello che si potrebbe scrivere andando a ritroso fino al 2009, data dalla quale prende il via il volume che ripercorre una decade d’incontri con l’autore al BPER Forum Monzani. Dieci anni di passioni. Forum Eventi 2009-2019 incontri con l’autore è stato offerto gratuitamente al pubblico in occasione delle passate festività natalizie ed è stato pensato come un regalo per tutti coloro che negli ultimi dieci anni hanno presenziato agli incontri tenutisi nella struttura di via Aristotele, da spettatori (circa 150 mila le presenze totali) o da relatori.

Nella foto, l’Amministratore Delegato di Bper Banca Alessandro Vandelli con il celebre fotografo Steve McCurry

“Le nostre iniziative al Forum – spiega l’amministratore delegato di BPER Banca Alessandro Vandelli sulle pagine del libro fotografico – vogliono essere l’espressione di una visione meno convenzionale, sviluppata negli ultimi anni insieme con molte altre attività, non meno importanti, di sostegno al territorio. L’obiettivo è favorire la crescita culturale della comunità in tutte le sue manifestazioni considerandola un fattore di sviluppo che contribuisce al benessere delle persone. Così la banca diventa protagonista ‘pensante’, ideatore e co-promotore di eventi formativi e culturali, non solo semplice finanziatore. Forum Eventi raccoglie un patrimonio di saperi, esperienze e conoscenze, che viene messo a disposizione dagli ospiti con i loro libri. Questo capitale – conclude Vandelli - va a beneficio di tutti coloro che vogliono investire sulla lettura e sulla cultura, diventando imprenditori della propria formazione”.

Sul palco del BPER Forum Monzani si sono alternati dal 2009 ad oggi i più importanti autori della scena letteraria e culturale italiana, oltre a molti grandi nomi del panorama internazionale, Premi Nobel e vincitori di Premi Oscar. Tutte le loro foto e le loro testimonianze, insieme con la descrizione dei 206 titoli proposti, sono raccolte nel libro, realizzato a cura di BPER Banca ed edito da Franco Cosimo Panini. Il volume, che nelle intenzioni di chi l’ha voluto è una sorta di piccola-grande macchina del tempo, è ancora disponibile: si può prenotare la propria copia (disponibile fino a esaurimento scorte) al link http://bit.ly/libromonzani o via mail scrivendo a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..
Dieci anni di passioni. Forum Eventi 2009-2019 incontri con l’autore vuole rivolgersi non solo a chi ama la lettura ma è in cerca di assonanze e buoni consigli; il libro vuole infatti essere una sorta di agile dizionario illustrato che propone tutti i personaggi che hanno presentato al Forum Monzani i loro libri; alcuni più volte come Fabio Volo, Enzo Bianchi e David Grossman, in una sorta di appuntamento fisso con i modenesi dove raccontare e raccontarsi. Un ‘festival diffuso’, dicono alla BPER Banca, unico nel suo genere nel panorama culturale del nostro paese e del dibattito culturale, politico, storico e financo religioso che lo ha animato dal 2009 ad oggi.

E infatti questo libro fotografico non si limita solo ad essere un elenco di titoli e fotografie ma propone per ogni protagonista la descrizione sintetica del volume (o dei volumi) che ciascun autore ha presentato, con ritratti e primi piani e corredata da frasi che questi hanno pronunciato sul palco di Modena o tratte dai loro testi. Intermezzi tra la scansione alfabetica di queste mini-schede cercano poi di raccontare storia ed evoluzione della struttura Forum, cercando di restituire l’atmosfera e il significato di dieci anni indimenticabili (gli autori, oltre a Vandelli, sono Eugenio Tangerini, Beppe Cottafavi e Giuliano Albarani, mentre la prefazione del libro è del Presidente di BPER Banca Pietro Ferrari).
Il Forum Guido Monzani, dedicato all’omonimo storico Direttore Generale dell’istituto di credito, è un complesso polifunzionale inaugurato dal 2000 con l’obiettivo di diventare Centro formativo. È in grado di ospitare diverse tipologie di eventi: congressi, convegni, riunioni di lavoro, corsi di formazione, mostre ed esposizioni commerciali, sfilate di moda, concerti, rappresentazioni teatrali, cene di gala ed altro. Dal 2009 come detto sede del Forum Eventi l’area del complesso dedicata a convegni ed eventi culturali offre auditorium, foyer su due piani per mostre, posizionamento di stand e servizio catering e sale modulari per incontri; è fornita di avanzate tecnologie audio e video, sala regia e servizio di traduzione simultanea. L’edificio comprende poi anche un bel giardino curato e il servizio bar/ristorante self-service. L’Anfiteatro è in legno di ciliegio, ha una capacità complessiva di un migliaio di posti, 737 dei quali in platea, in comode poltroncine Frau. In occasione degli appuntamenti del Forum Eventi la media delle presenze è stata di circa 600 persone e non di rado si è arrivati al ‘tutto esaurito’.

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23 - Un tesoro da scoprire nel cuore della città

UN TESORO DA SCOPRIRE NEL CUORE DELLA CITTÀ

Arte di Vivere vi racconta l’Accademia Nazionale di Scienze Lettere e Arti di Modena: una storia centenaria e un futuro tutto da costruire.

Di MM

È un tesoro, una meraviglia che pochi modenesi conoscono e che invece meriterebbe più attenzione e maggiore considerazione per quello che rappresenta nella storia della città, per la qualità del patrimonio culturale che custodisce, ma soprattutto per il contributo che potrebbe dare alla definizione di un tratto di futuro della società modenese.
L’Accademia Nazionale di Scienze Lettere e Arti, perché di questo stiamo scrivendo, ha una sede straordinaria, una storia ricca di personaggi, episodi ed emozioni “ma - ci racconta il Presidente, Prof. Salvatore Puliatti, in carica da pochi mesi - ha soprattutto molto da offrire ai modenesi di oggi ed è in questa direzione che intendiamo impostare il nostro lavoro”.

La storia
Erede dell'Antica Accademia dei Dissonanti, l'Accademia Nazionale di Scienze Lettere e Arti è da più 3 secoli un riferimento certo per la cultura del territorio Modenese: certo, ma poco o nulla conosciuto. Ecco allora alcuni cenni storici per aiutare a comprendere lo spessore e l’importanza di questa antica istituzione cittadina.
L'accademia riceve fin dall'inizio (1680) la simpatia dei duchi di Modena: due solenni accademie all'anno (nel senso di incontri, saggi o anche esposizioni) si tenevano a corte, le altre due mensili presso il Collegio San Carlo. Nel secolo successivo l’Accademia di Modena trova il suo fulcro in Ludovico Antonio Muratori, che ha larga parte nell'elaborazione delle Costituzioni del 1731.
Personaggi di rango e letterati di lontani paesi richiesero di essere aggregati. Inoltre l'Accademia dei Peloritani di Messina chiese di avviare corrispondenza con l'Accademia di Modena e nel 1728 seguì l'aggregazione fra le due Accademie. Ne fu artefice lo stesso Ludovico Antonio Muratori.
Nel percorso per la ricerca dell'atto costitutivo originario dell'Accademia di Modena è stato individuato come primo documento l'antico testo di “Leggi dell'Accademia de' Dissonanti di Modena di nuovo pubblicate sotto gli auspici di S. A. Serenissima Rinaldo I Duca di Modena ecc.”. Quel testo fu edito a Modena per i tipi (modalità tipografiche) di Bartolomeo Soliani, nel 1731. Di quel documento non è venuto fino ad ora alla luce alcun esemplare, ma si deduce che questa dovesse essere una seconda edizione.
Dal 1768 inizia la redazione regolare dei verbali delle sedute, che si interrompono - come l'attività dell'accademia - nel 1795, in coincidenza con l'invasione a seguito della Rivoluzione francese. Successivamente, in periodo napoleonico, l'attività venne allargata anche alle arti meccaniche.
Negli statuti del 1817, 1826, 1841 il nome dell'Ente diviene: “Reale Accademia di Scienze Lettere e Arti”. Il titolo “reale” sostituisce quello “ducale” per le prerogative, attribuite a Francesco IV d'Este, di Principe reale d'Ungheria e di Boemia, oltre che Duca di Modena. Il carattere statale dell'Ente si conferma con l'avvento del Regno d'Italia, con lo Statuto del 1860, e poi decisamente con gli statuti del 1910 e del 1934. Nella legislazione italiana ha avuto costantemente un posto tra le dieci reali accademie di prima categoria.
La Commissione per la riforma dello Statuto ribadì, nel 1910, il carattere statale della Accademia come ente di alta cultura. Il 5 Marzo 1959, in concomitanza con l'approvazione del nuovo Statuto, all'Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Modena viene attribuito il titolo di Accademia Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti, con Decreto del Presidente della Repubblica.

La biblioteca
La Biblioteca è distinta in due reparti di notevole importanza: l’uno costituito da opere e da opuscoli provenienti da cospicui lasciti di soci, da omaggi di autori e di editori; l’altro dai Periodici di alta cultura, prevalentemente scientifica, ricevuti per lo più in cambio delle Memorie e degli Atti dell’Accademia, a cominciare dalla prima metà dell’Ottocento. L’attuale consistenza – in volumi, fascicoli sciolti, opuscoli – supera i 130.000 pezzi. Non è possibile dare la cifra esatta in quanto l’aggiornamento dei cataloghi e dello schedario è attualmente in corso e, data la mole, è molto probabile che prosegua ancora a lungo.
Promossa fin dal 1792, la Biblioteca non poté impostarsi definitivamente se non dopo il 1817 quando l’Accademia, per decreto ducale, entrò in possesso delle suppellettili della “Società agraria” e della “Società di arti meccaniche”, che avevano avuto nobile, ma breve vita nel periodo franco-italico.
Oltre ai periodici, che sono la zona più viva e vitale del complesso accademico, un altro prezioso terreno di studio è offerto da alcune decine di migliaia di opere e di opuscoli pervenuti – come si è detto – da generosi lasciti di patrizi e studiosi modenesi e da omaggi di soci, di autori, di editori.
Non è possibile dare indicazioni adeguate sul valore della biblioteca in relazione alle materie, al pregio, alla rarità delle edizioni: abbondano le opere di erudizione, di storia e soprattutto di carattere scientifico, oltre le collezioni e serie di memorie di università, di accademie dei paesi europei ed extra europei. Ancora nel corso dell’800 emersero una trentina di incunaboli di gran pregio tra i quali, prima di tutti, il Morgante del Pulci nella primissima edizione, fino allora ignota e nell’unico esemplare fino ad oggi conosciuto. La biblioteca è aperta al pubblico dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 19.

La sede
Se non è il più bel palazzo di Modena, poco ci manca. Sicuramente presenta aspetti monumentali e forme architettoniche che non trovano riscontro in altre pur pregevoli costruzioni cittadine.
È Palazzo Coccapani Rango d’Aragona, circa a metà di corso Vittorio Emanuele e, appunto, attuale sede dell’Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti. Dal punto di vista logistico, infatti, l’Accademia ha avuto una storia complessa, anche se poi, alla fine, sono state solamente tre le sedi ufficiali: quella originaria del Collegio San Carlo per più di due secoli; poi, nel 1939, il trasferimento nella residenza dell’allora presidente, Matteo Campori, in via Ganaceto; quindi, nel 1944, a seguito di un bombardamento, l’approdo all’attuale sede di corso Vittorio Emanuele. La scelta di Palazzo Coccapani venne concordata tra il Presidente Benvenuto Donati, il segretario generale Giuseppe Cavazzuti e Alfeo Corassori, primo Sindaco di Modena dopo la Liberazione.
Il palazzo è davvero una meraviglia dell’architettura e il primo colpo d’occhio è costituito dallo scalone monumentale, con due rampe maestose alla quali fa da contraltare la bellissima balconata centrale. La parte nobile è quella occupata dall’Accademia ed ha uno sviluppo ad anello, con diverse e magnifiche sale che approdano a quello che era il Salone delle feste attualmente utilizzato come sala conferenze dell’Accademia.
La costruzione risale al 1656. Venne acquistata e ristrutturata, anzi radicalmente trasformata nel 1772 dal marchese napoletano Paolo Rango D’Aragona, signore di San Martino in Rio e Campogalliano. Quindi il passaggio alla Famiglia Coccapani che ne conservò la proprietà fino al 1906 e che contribuì a determinarne la denominazione attuale in Palazzo Coccapani Rango d’Aragona.
In mezzo, alcuni anni di proprietà della Curia ai primi del ‘900, quindi “casa del fascio” nel 1930 e, dopo la Liberazione, finalmente sede dell’Accademia Nazionale di Scienze Lettere e Arti di Modena. Non ci sono riscontri, ma trasformare la casa del fascio in un’istituzione di alta cultura rientrava nelle modalità di ragionamento di Corassori, Sindaco Partigiano.

Le attività
L’Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Modena organizza conferenze e convegni aperti al pubblico, realizza mostre del prezioso materiale conservato, svolge attività didattica e attività editoriale, pubblicando il periodico “Atti e Memorie”, monografie e cataloghi di fondi accademici. Inoltre, ospita attività e iniziative promosse da soggetti esterni.
“Proprio da qui vorremmo ripartire - conclude il Presidente - proseguendo il percorso dell’Accademia nel solco della tradizione, soprattutto in termini di qualità e di prestigio, ma con un’attenzione più definita e costante ai temi proposti dalle comunità scientifiche e dalla società modenese.”

L’Accademia dei Dissonanti

Verso il 1680 prende vita l’Accademia dei Dissonanti all’interno del Collegio San Carlo, nel contesto della ripresa delle pubbliche lezioni, iniziate nel 1678, che permetteranno la riapertura dello Studio Pubblico nel 1682. Nel 1684 l’Accademia discusse delle costituzioni, del simbolo e della denominazione. Fu approvata la proposta di un emblema che rappresentasse l’armonia nella varietà degli accordi. Gli accademici di Modena presero così il nome di Dissonanti con il motto “Digerit in numerum dissonantes”. L’emblema fu ed è un’aquila sovrastata da una corona di alloro e affiancata da due rami di palma, recante una cetra pendente dal collo: il simbolo ricorda la tutela estense sull’istituzione.

Il nuovo consiglio di presidenza

Presidente: prof. Salvatore Puliatti
Vicepresidente: prof. Sergio Ferrari
Presidente della Sezione di Scienze fisiche, matematiche e naturali: prof.ssa Maria Franca Brigatti
Presidente della Sezione di Scienze morali, giuridiche e sociali: prof. Giorgio Pighi
Presidente della Sezione di Storia, lettere e arti: prof. Giorgio Montecchi
Segretario Generale: prof.ssa Licia Beggi Miani
Economo Tesoriere: prof. Alberto Bregoli
Bibliotecario Generale: dott.ssa Milena Ricci

Presidente: prof. Salvatore Puliatti
Vicepresidente: prof. Sergio Ferrari
Presidente della Sezione di Scienze fisiche, matematiche e naturali: prof.ssa Maria Franca Brigatti
Presidente della Sezione di Scienze morali, giuridiche e sociali: prof. Giorgio Pighi
Presidente della Sezione di Storia, lettere e arti: prof. Giorgio Montecchi
Segretario Generale: prof.ssa Licia Beggi Miani
Economo Tesoriere: prof. Alberto Bregoli
Bibliotecario Generale: dott.ssa Milena Ricci

Il medagliere

Una speciale menzione per uno dei tesori conservati nei locali dell’Accademia e cioè il Medagliere Rangoni, quasi 7mila pezzi a partire dall’epoca romana. Il marchese Luigi Rangoni fu Presidente dell’Accademia dal 1814 fino alla morte intervenuta nel 1844. Nel suo testamento olografo, il nobile modenese assegnò all’Accademia la sua biblioteca e la sua raccolta di monete e medaglie: una passione, quella delle monete, che probabilmente aveva condiviso con qualche suo antenato e si presume che in casa Rangoni, all’inizio dell’800, fossero già presenti oltre 4mila pezzi di ogni epoca e tipologia. A questo già consistente tesoro, nel 1811 si aggiunse la collezione del conte Ottavio Greco di Mirandola costituita da oltre 2300 monete e 92 medaglie.
Attualmente il Medagliere conta 59 monete greche, 343 monete romane di epoca repubblicana, 1.653 monete romane imperiali, 76 monete dell’impero di Bisanzio, 2579 monete medievali e moderne, 936 monete estere, 491 medaglie e placchette, altre 544 indecifrabili o false. In totale 6.681 pezzi.

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