Gli antenati degli osti di Gallucci e Pomposa
La corporazione e le regole, ma soprattutto cibo, vino e simpatia a far le fortune di una categoria di locali molto frequentata dai modenesi e dai viaggiatori del tempo.
Anche gli osti modenesi ebbero la loro Corporazione che vollero protetta da celesti Patroni e governata da capitoli statutari a dire il vero molto semplificati: solo otto brevissimi punti normativi a trattare delle poche essenziali cose comuni a tutte le altre Arti. Mancano di sensibili richiami al coscienzioso esercizio dell’attività, alla solidarietà dei corporati, alla vita religiosa, non vi è cenno alla disciplina della concorrenza. Si può onestamente pensare che gli osti del XVI secolo non avessero scrupoli eccessivi a maritare l’acqua con il vino. E forse fu per questo che un notissimo oste del nostro tempo, pentito come gli altri e per tutti gli altri, d’avere combinato troppi matrimoni di tal genere, donò ai modenesi la zampillante fontanella di piazzale della Pomposa con la indicativa iscrizione.
Ma torniamo al 6 luglio 1598, quando i Conservatori della magnifica Comunità, chiamati dal suono della campana, si raccolsero in Consiglio per trattare dei pubblici negozi. All’ordine del giorno c’era anche l’approvazione dei nuovi statuti degli osti redatti e presentati dai massari in carica, Alberto Carretta e Francesco Chierici. Già nel 1527 il Duca Alfonso I, di passaggio a Modena, ne aveva promesso l’approvazione “in quanto contenessero di onesto e di utile”. Secondo i capitoli riformati, ogni anno, alla fine di aprile, nella festa della traslazione di San Geminiano, gli uomini dell’Arte si dovevano raccogliere per l’elezione dei massari, di due sindaci, del Notaio e di un Commendatario.
L’elezione avveniva per imbussolamento di palline bianche e nere. Gli eletti o rieletti, duravano in carica un anno e giuravano nelle mani dei dirigenti uscenti di rispettare e di fare osservare gli statuti, di difendere le ragioni dell’Arte, di tenere aggiornato il libro degli immatricolati, di richiamare i disobbedienti e di comminare le sanzioni, per la verità sempre poche e minime.
Godevano del diritto di voto attivo e passivo gli ultraventenni che fossero cittadini modenesi o residenti a Modena da oltre dieci anni, che avessero pagato la quota d’iscrizione e giurato l’osservanza degli statuti. Era facoltà dei massari ammettere l’iscrizione dei forestieri (che, però, dovevano pagare doppia quota) e autorizzare la vendita ai non immatricolati soggetti, a loro volta, a una imposta per ogni “quartaro” di vino venduto. I clienti che restavano in debito dovevano essere annotati sopra un libro autenticato dai massari.
Anche se gli statuti sfioravano appena e non insistevano molto sopra la moralità e la religiosità degli osti, non si deve concludere che essi ne fossero privi. Il buon nome del locale gestito, la dignità personale, la sorveglianza dell’autorità, contribuirono ad accreditare anche a questa Corporazione di onestà e prestigio. Sfogliando le cronache del tempo e risalendo al nome delle singole osterie, raramente si riscontrano fattacci, recriminazioni, richiami di autorità, proteste di pubblica opinione. Quest’ultima, anzi, simpatizzava per i cultori di Bacco e volentieri li frequentava.
Come le altre Arti anche quella degli osti correva ogni anno un palio e organizzava la gloriosa luminaria in onore del Patrono S. Giuliano detto l’Ospitaliere. Anche San Geminiano, co-Protettore di tutte la Arti cittadine, era oggetto del culto degli osti i quali, nel giorno della sua traslazione, affollavano la cattedrale e facevano l’offerta del doppio cero.
Per soddisfare la curiosità dei lettori risaliamo brevemente al nome e ad alcune vicende delle principali osterie modenesi del sec. XVI.
Nell’attuale contrada Tre re si trovava l’omonima osteria che aveva per insegna i Tre Re Magi, protettori dei pellegrini. Non molto distante c’era quella del Diavolo rosso. Nella vicina via Trivellari c’era l’osteria del Pozzo d’oro e in via Balugola l’Aquila nera.
In una traversale di Rua Pioppa c’era la Luchina “dove si mangiava gatto sera e mattina”. L’osteria del Biscione si trovava presso la Fortezza, quella del Cappello presso il porto del Naviglio, quella del Moro in via Beccherie, in faccia all’ospedale della morte, quella del Gambero in contrada San Domenico. Qui il noto cronista Lancillotto il dì 13 gennaio 1540 si recò a consultare il celebre chiromante Bonaventura, detto il Re dei padovani.
L’osteria del Montone invece era a porta Cittanova. Il 19 aprile 1554 il titolare, avendo derubato un cliente con la complicità di un topo d’albergo, finì in prigione con tutta la famiglia.
L’osteria dello Specchio era la preferita dai viaggiatori lombardi, fiorentini, veneziani, genovesi, da dottori, frati, giudei e dai cardinali anziani. Vi si magnificava “una sosta delicata, buone camere, buon fuoco, buonissime lenzuola di bucato, vino di pianura e di montagna, storne, salsicciotti, pollastri, piccioni, capponi, animelle di vitella, mortadella, prosciutto cremisi.” Al Matto cercavano piacevole alloggio parmigiani, vicentini, francesi e i cardinali giovani. Al Porco si rifugiavano i tedeschi. I napoletani trascorrevano festose serate all’Amore e alla Spada, recapito fisso del Duca di Amalfi.
Gli spagnoli preferivano il Rampino, sulla via Emilia, nel fabbricato del Collegio. Note erano anche le osterie del Guicciardino, della Campanella, della Buca e della Bruciata.
Furono in buona vista anche le osterie del Macario, di S. Leonardo e dell’Angelo. In questa osteria, il 21 ottobre 1600, in incognito alloggiò monsignor Francesco Baro, tedesco di Dietrichstan, consigliere imperiale, che si recava a Roma per ricevere il cappello cardinalizio.
Tutti gli osti, senza esagerati scrupoli, con disinteresse benevolo dei corporati, erano consapevoli che per la buona affermazione, più degli statuti, valevano la qualità del vino e la buona cucina, l’onore del locale e quel pizzico di furberia gioviale che permette di presentare il conto senza togliere il sorriso al cliente. Furono proprio le buone maniere dell’accoglienza che consentirono agli osti di inserirsi sempre meglio nel tessuto sociale modenese, aumentando la propria fortuna e garantendo un servizio indispensabile alla città.
Il fonticolo dell'oste
In una delle piazzette più belle e suggestive di Modena centro, La Pomposa, tra i molti gioielli storici e architettonici ve n’è uno assolutamente originale, realizzato in epoca relativamente recente, eppure perfettamente calato nel contesto della piazza che da anni ospita la movida modenese.
Si tratta del Fonticolo dell’Oste, la fontanella che sgorga da un mascherone collocato su di un muro di cinta e si immerge in un capitello incavato a fare da vasca di contenimento.
Il manufatto è ornato da una targa che ne spiega, in parte, la provenienza e che recita, tradotto dal latino, “Telesforo Fini, di gran lunga il primo oste di Modena, donò questa fontanella alla città poichè con troppa acqua aveva allungato il vino.”
Ovviamente dietro c’è una storia, anzi una tipica storia modenese. Nel 1912, Telesforo Fini, originario, non a caso, di Sorbara, terra del vero lambrusco, si trasferì a Modena con la famiglia per intraprendere l’attività di salumaio a partire dalla prima bottega di Corso Canalchiaro.
L’uomo che contribuì a diffondere l’arte culinaria modenese nel mondo, ebbe subito successo al punto, come spesso avviene, da suscitare l’invidia e conseguente rivalità da parte di alcuni suoi colleghi dell’epoca che, si mormora, misero in giro la diceria che da Fini il lambrusco veniva allungato col l’acqua.
Il Fonticolo è l’ironica risposta di Telesforo a quelle accuse infamanti: “allungo il vino con l’acqua? Allora lasciate stare il mio vino e tenetevi solo l’acqua di questa bella fontanella al centro di Modena. Era il 1949, la guerra finita da poco e poca voglia di innescare altri conflitti: meglio una risata e un sorso di acqua fresca…